Il performance marketing è brutto e cattivo?
Forse un pochino ma gli si vuole bene comunque.
Pensavo a qualcosa di più estivo per l’ultima newsletter prima della pausa di agosto ma Brian Morrisey (consiglio sempre la sua newsletter, The Rebooting) è arrivato con un assist millimetrico per un paio di note che tenevo in draft.
Il titolo: “The dark side of performance”, sintesi brutta da parte mia: troppo performance marketing ha rovinato la percezione e le strategie delle aziende, guidando l’evoluzione delle piattaforme (tipo Google e Meta) che ovviamente l’hanno cavalcato al meglio per monetizzare.
Ripeto: sintesi molto parziale e soggettiva, merita davvero 3 minuti di lettura integrale.
Riprendo alcuni passaggi con mie annotazioni:
”Most companies do not want to advertise. What they want is to acquire customers and sell products” [..]
Niente di male, sarei ipocrita a direi il contrario, si fanno “cose” online per riempire Excel e fatturati, e bello così. L’errore macro però è pensare che l’advertising sia pesabile solo in termini di ROAS. Questa è una sliding door micidiale: non tanto in termini di risultati, quanto in termini di sostenibilità nel tempo. E arriviamo alla seconda quote.
”For marketers, an overreliance on performance marketing is unsustainable”
Overreliance è un concetto molto rotondo: “fare eccessivo affidamento”. Non puoi fare solo performance marketing, non puoi affidarti solo a questo. Oppure si, però preparati a dover alimentare generosamente il flusso di budget se l’obiettivo è crescere e scalare continuamente.
[..] Most of these companies never built real brands and only rented their customers from Meta and Google.
La frase che credo introdurrò nelle prossime strategy: le aziende “overreliant” non costruiscono brand, noleggiano utenti dalle piattaforme.
Provocatoria certo perchè gli utenti li puoi e li devi fare “tuoi” (loyalty: altro tema bellissimo in slide, pesantissimo nella realtà) e non solo noleggiare, ma tocca bene il nervo giusto. E arriviamo alla fine
The only way to reduce customer acquisition costs over time is brand. And you can't measure brand on a short feedback loop.
Giusto concetto, di difficile ascolto su molti tavoli in cui il timer per avere performance è un countdown spietato: subito, subito, subito. Umanamente (e anche finanziariamente forse) lo capisco ma questo pensare al breve (shorterminism) ha delle conseguenze e dei prezzi inevitabili. Il primo che vedo: la pazienza vs la superc****ola.
Pazienza perchè non costruisci un brand in 12 mesi (tolte poche eccezioni di boom clamorosi, spesso seguite da sboom altrettanto clamorosi).
Superc****ola da parte dei/delle marketer di turno che (talvolta) possono uscire con frasi tipo “Ok, l’investimento non ha sta avendo ritorni ora ora ma ci aiuta a fare branding”. Che può essere vero ma, messo giù così, sembra più una giustificazione che non una strategia.
E su questo mi fa sorridere la recente riflessione di Les Binet (forse tra i più citati quando si sciabola il binomio brand vs performance) che ho trovato qui:
“Where I think we get it wrong is when we want to do both jobs at the same time,” he said. “Brands make that mistake of trying to do the brand stuff at the point of purchase. They’re different jobs.”
Non sono del tutto d’accordo perchè ho il messy middle nel cuore ma è chiaro che non puoi puntare a fare branding “per sbaglio” mentre cerchi di portarti a casa altro.
Ok, avrei altre due appunti in nota “performance branding, brandformance e la danza dei draghi” + “il problema della conversione che non misuri” (rianimata dalle ultime notizie di Google sui cookie) ma mi fermerei qui altrimenti è subito Ferragosto.
Dimmi solo quale dei due vorresti leggere nella prima newsletter di settembre:
E chiuderei qui, lasciando la sezione link a riposo.
Buon qualsiasi cosa, take care e device spenti.
A presto
Nicola